Devastazione e saccheggio (art. 419 c.p.)



Dimenticato, di fatto, per anni, il delitto di devastazione è tornato prepotentemente alla ribalta, utilizzato dalle procure della Repubblica principalmente per reati divenuti di allarme sociale, tra cui, su tutti, quello attinente alla violenza negli stadi.
Ciò è dimostrato dalla reviviscenza della norma, contestata, a dire il vero, anche per fatti minimali che avrebbero integrato di certo solo la figura del danneggiamento aggravato.
In un’ottica distorta della giustizia, tuttavia, una simile contestazione iniziale consente con maggiore facilità l’applicazione di misure cautelari, visto che la pena edittale va da otto a quindici anni di reclusione.
Le poche pronunce dei giudici di legittimità non hanno ancora fatto chiarezza sulla norma, che deve essere armonizzata – e questo è lo scopo del presente lavoro, con la Costituzione.
Ciò impone al sottoscritto di svolgere il presente lavoro evidenziando unicamente le sentenze, per lo più di merito, che hanno tenuto conto della cornice costituzionale di riferimento, dalla quale l’esegeta non può sottrarsi.
Roma, 19 settembre 2008
Avv. Lorenzo Contucci


a.1) IL DATO NORMATIVO 

E’ bene premettere che il delitto di cui si discute è nato con il Regio Decreto del 19 ottobre 1930 n. 1398, pubblicato nella G.U. n. 251 del 26 ottobre 1930, ed entrato in vigore il 1° luglio del 1931.

A fronte di un’anzianità quasi secolare, le sentenze rese in subiecta materia si contano sulle dita di una mano, avendo avuto tale delitto una rinnovata vitalità solo nel corso degli ultimi due anni, allorquando diverse procure della Repubblica hanno inteso contestarlo principalmente per contrastare le “imprese” dei c.d.  hooligans nostrani.

Al fine di condurre un corretto approfondimento, è necessario partire dal dato normativo: “Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’art. 285, commette fatti di devastazione o di saccheggio è punito con la reclusione da otto a quindici anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso su armi, munizioni o viveri esistenti in luogo di vendita o di deposito”.

Già il tenore dell’articolo lascia intendere la situazione storico-politica in cui lo stesso ha visto la luce.

Ma al di là di questo, il primo termine da esaminare è la parola “fatti”, e verificare se nel caso specifico i “fatti” attribuiti in concreto al prevenuto possano essere qualificati come di devastazione.

Ora, la parola “fatti” sta ad indicare le diverse possibili modalità dell’azione: danneggiamento, dispersione, incendio, esplosione, demolizione ed altri sicché la prima analisi da compiere è quella relativa alla stessa sussistenza del delitto e, successivamente, l’eventuale riconducibilità dello stesso all’imputato.


a.2) L’ANALISI DELLA SUSSISTENZA DEL DELITTO DI CUI ALL’ART. 419 C.P.

Il primo quesito che deve risolvere l’interprete è in ordine a ciò che distingue la devastazione dal semplice danneggiamento, sotto un profilo strettamente oggettivo.

Ciò vuol dire che deve essere individuata la ragione per la quale la prima fattispecie è inclusa, sistematicamente, nel titolo quinto del secondo libro del Codice penale, tra i delitti più gravi contro l’ordine pubblico al pari dell’istigazione a delinquere (art. 414 c.p.), dell’associazione per delinquere (art. 416 c.p.), dell’associazione di tipo mafioso  (art. 416 bis c.p.) e dell’attentato ad impianti di pubblica utilità  (art. 420 c.p.), a differenza della seconda.

La risposta è, tutto sommato, semplice:
1) l’entità del danneggiamento;
2) la lesione dell’ordine pubblico, con i limiti di cui si dirà.


a.2.1) L’ENTITA’ DEL DANNEGGIAMENTO

Fatti di devastazione possono essere compiuti con diverse modalità, dalle più distruttive in senso proprio (esplosione, incendio, demolizione) sino a quelle praticate tramite il semplice danneggiamento ma con azioni tali da raggiungere comunque il risultato della distruzione vasta e profonda di una notevole quantità di beni mobili o immobili.

Il primo evento che deve sussistere per qualificare il reato, è comunque, imprescindibilmente, il danneggiamento, vasto e profondo: “La fattispecie di cui all’art. 419 c.p. incrimina i fatti di danneggiamento indiscriminato, vasto e profondo di una notevole quantità di cose mobili o immobili, che risultino idonei a turbare l’ordine pubblico, inteso come buon assetto o regolare andamento del vivere civile, cui corrispondono, nella collettività, l’opinione e il senso della tranquillità e della sicurezza” (Cass. 25 gennaio 1973, Azzaretto; Cass. 28 aprile 1983, Alunni).

Ora, se si conduce un’analisi semantica delle parole, il concetto di “vastità” e “profondità” è ambiguo, in quanto lasciato alla più pura discrezionalità di chi osserva e valuta, al pari del termine “notevole” che pure viene utilizzato nella citata pronuncia della Corte di Cassazione per delineare i caratteri dell’azione e dell’evento.

Il correttivo che si può adottare per non correre il rischio di trascendere dalla discrezionalità nell’arbitrio, è quello di valutare questi tre termini nella logica del sistema, e quindi, nella fattispecie, in rapporto al fatto che il delitto di cui si discute è punito con una pena edittale che va da 8 a 15 anni di reclusione, al pari ed ancor più di reati di elevatissimo allarme sociale.

Il concetto di danneggiamento “vasto”, quindi, non può essere limitato a quanto avvenuto in uno spazio tutto sommato circoscritto, così come il concetto di “profondo” deve per forza riferirsi ad una tipologia di danneggiamento radicale condotto con mezzi adeguati che porti in pratica alla distruzione del bene.

Devastare vuol dire annientare, distruggere, danneggiare irrimediabilmente, rendere non più utilizzabile un bene o un complesso di beni disperdendone ogni parte, al contrario di danneggiare, che vuol dire rendere solo in parte e temporalmente inservibile uno o più beni.

Sulla differenza tra il reato di devastazione e quello di danneggiamento, altra autorevole voce ha chiosato che “è l’entità della distruzione (si noti l’utilizzo del termine “distruzione” e non danneggiamento, n.d.r.) che caratterizza il primo reato” rispetto al secondo (Cassazione 12.02.1962, ric. Amato). 

Diversamente argomentando potrebbe essere contestato il delitto di devastazione ai membri di una scolaresca che in una gita dovessero rompere con dei sassi alcuni lampioni dell’illuminazione pubblica in un’affollata strada metropolitana, ma ciò striderebbe con il comune buon senso, prima ancora che con il diritto.

L’analisi da compiere, quindi, nei giudizi di merito non potrà non verificare se i beni siano stati danneggiati in numero limitato, con danni circoscritti e di lieve entità che comunque possono essere riparati facilmente. 

Non si può quindi parlare semplicisticamente di devastazione quando in atti vi è segno, semmai, del semplice danneggiamento, ancorché aggravato, di beni, la cui pena edittale, ex art. 635 c.p., va da sei mesi a tre anni.


a.2.2)  LA LESIONE DELL’ORDINE PUBBLICO

L’interpretazione semantica di “ordine pubblico”, anche in questo caso, va effettuata in aderenza ai parametri logici del sistema, tenendo presente che le distruzioni che possono integrare il gravissimo delitto di cui all’art. 419 c.p. possono vulnerare l’ordine pubblico in modo più o meno intenso, ad esempio propagandosi per un’intera città, o estendendosi ad un quartiere oppure limitandosi a zone circoscritte, quali un viale, uno stadio, un’area dello stesso e via dicendo.

Possono durare per un paio d’ore o protrarsi per giorni e giorni.

Durante il G8 di Genova del 2000, ad esempio, le distruzioni – ampiamente prevedibili – furono attuate per un’intera giornata e coinvolsero l’intero centro cittadino, oltre ad essere compiute con modalità tali da rendere inservibili per settimane esercizi pubblici ed attività private; furono condotte da soggetti che si confusero in mezzo a manifestanti pacifici che vennero loro malgrado coinvolti nelle devastazioni e nei saccheggi e vennero praticate da persone attrezzatesi all’uopo con strumenti tali da potere realmente distruggere i beni (spranghe di ferro, mazze, bastoni, bombe molotov e via dicendo).

Nel caso in cui, quindi, vi sia la contrapposizione tra un limitato numero di persone e forze dell’ordine, in una zona comunque circoscritta e tenuta costantemente sotto controllo, con le ovvie difficoltà di chi è preposto a gestire l’ordine pubblico, si ritiene che di certo non possa parlarsi di lesione dell’ordine pubblico nel senso voluto da una norma così affittiva.

Qualsiasi reato, a ben vedere, comporta la lesione dell’ordine pubblico, perché ogni disarmonia giuridica incrina l’ordine, se per tale s’intende il sistema delle leggi che regolano il vivere civile negli spazi pubblici e aperti al pubblico.

Di ciò se n’è accorta la Suprema Corte nella già menzionata sentenza n. 4135 del 21.05.1973, imp. Azzaretto, la cui massima così recita: “Il bene dell’ordine pubblico, pur costituendo l’oggetto giuridico del reato previsto dall’art. 419 c.p. ed il motivo ispiratore di tale norma, non partecipa della fattispecie legale come elemento costitutivo o condizione di punibilità, avendo il legislatore, con sua preventiva valutazione fondata sull’ id quod plerumque accidit, considerato insito  nella condotta incriminata il danno o il pericolo per l’ordine pubblico e, quindi, presunto juris et de jure l’evento stesso nella predetta condotta”.

Senza farsi troppo sviare da frettolose argomentazioni, quindi, ancorché provenienti da organi qualificati, è chiaro che poiché la lesione dell’ordine pubblico è insita nella condotta incriminata, allora deve guardarsi all’entità della distruzione perché si possa qualificare il fatto come devastazione ovvero danneggiamento.

Diversamente argomentando si dovrebbe ritenere la sussistenza del reato ogniqualvolta una manifestazione di lavoratori, operai, sindacati trascenda in scontri con le forze dell’ordine con il contorno di qualche danneggiamento.


a.3) INCOSTITUZIONALITA’ DELL’ART. 419 C.P. PER CONTRASTO CON GLI ARTT. 3 e 27 DELLA COSTITUZIONE IN ORDINE ALLA PREVISIONE DI UN MINIMO EDITTALE DI OTTO ANNI DI RECLUSIONE

Ove così non fosse, non potrebbe che eccepirsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 419 c.p. per contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione nella parte in cui prevede la pena minima di otto anni di reclusione, giacché il minimo edittale della norma è superiore rispetto ad altri gravissimi delitti, di allarme sociale decisamente superiore, contravvenendo all’eguaglianza tra i cittadini e al fine rieducativo della pena.

A mero titolo esemplificativo, si potrà notare:

  • L’art. 244 c.p. (“Atti ostili verso uno Stato estero, che espongono lo Stato italiano al pericolo di guerra), prevede al suo primo comma[1] quale pena edittale la reclusione da sei a diciotto anni e al suo ultimo comma[2] da cinque a quindici anni.
  • L’art. 245 c.p. (“Intelligenze con lo straniero per impegnare lo Stato italiano alla neutralità o alla guerra”) prevede la reclusione da cinque a quindici anni.
  • L’art. 246 c.p. (Corruzione del cittadino da parte dello straniero) punisce il reo con una pena da tre a dieci anni.
  • L’art. 270 c.p. (“Associazioni sovversive”) prevede la pena da cinque a dodici anni per chi promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni dirette a stabilire violentemente la dittatura di una classe sociale sulle altre, ovvero a sopprimere violentemente gli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, ovvero ogni ordinamento politico e giuridico della società.
  • L’art. 270-bis c.p. (Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico) punisce chi promuove, costituisce, organizza, dirige o finanzia associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico con la reclusione da sette a quindici anni.
  • L’art. 277 c.p. punisce chi attenta alla libertà del Presidente della Repubblica con la reclusione da cinque a quindici anni.
  • Per l’art. 284, II co. c.p., chi partecipa all’insurrezione armata contro i poteri dello Stato è punito con la reclusione da tre a quindici anni.
  • Lo stesso art. 416 bis c.p. – collocato sistematicamente nel medesimo titolo[3] del codice penale dell’art. 419 c.p. – punisce chi fa parte di un’associazione di tipo mafioso con la reclusione da cinque a dieci anni, mentre per chi promuove, dirige o organizza l’associazione la pena va da sette a dodici anni.  Se l’associazione è armata, la pena nei casi di cui al primo comma va da sette a quindici anni e solo per i promotori va da dieci a ventiquattro anni.

Solo per tale ultima ipotesi si ha, in seno al titolo V del capo II del Codice Penale, una pena edittale minima superiore a quella prevista dall’art. 419 c.p..

Come dire, un devastatore o un saccheggiatore, nella scala gerarchica di coloro che commettono reati contro l’ordine pubblico, è secondo solo a Totò Riina e, nel panorama complessivo regolato dal codice penale, commette un reato più grave di chi partecipa ad una insurrezione armata contro i poteri dello Stato o di chi si pone a capo delle Brigate Rosse o dei N.A.R..

Tutti gli altri reati collocati nella medesima parte del Codice Penale hanno pene, sia minime che massime, inferiori a quelle di cui all’art. 419 c.p..

Questo per dire che l’analisi della sussistenza del delitto di devastazione e saccheggio non può non tener conto di come il Legislatore ha regolato fattispecie di eccezionale gravità.

La discrezionalità che il legislatore senz’altro ha, non può trascendere nell’irragionevolezza, e ciò vale sia per chi scrive la norma sia per chi è chiamato ad applicarla. 

Il principio di ragionevolezza delle leggi è un corollario del principio di uguaglianza, elaborato dalla Corte Costituzionale, prendendo spunto da un analogo principio individuato dalla giurisprudenza anglosassone.

Detto principio esige che le disposizioni normative contenute in atti aventi valore di legge siano adeguate o congruenti rispetto al fine perseguito dal legislatore. Si ha dunque violazione della “ragionevolezza” quando si riscontri una contraddizione all’interno di una disposizione legislativa, oppure tra essa ed il pubblico interesse perseguito, costituendo il principio sopra richiamato un limite al potere discrezionale del legislatore, che ne impedisce un esercizio arbitrario. La verifica della ragionevolezza di una legge, comporta l’indagine sui suoi presupposti di fatto, la valutazione della congruenza tra mezzi e fini, l’accertamento degli stessi fini; si ricorre spesso ai lavori preparatori della legge, alle circolari ministeriali esplicative, ai precedenti storici dell’istituto.

Per tali ragioni, allorquando si ha l’impressione che il delitto di devastazione sia stato contestato impropriamente, non resta che porre chi giudica di fronte a un bivio: o la norma è irragionevole ed incostituzionale per la previsione di un minimo edittale eccessivo rispetto ad altre norme, ovvero la stessa è stata non correttamente invocata.


a.4) ALCUNE RECENTI DECISIONI DI MERITO SULL’ART. 419 C.P.

La Corte d’Appello di Roma si è espressa di recente sull’argomento, esaminando – il caso vuole – alcuni episodi delittuosi avvenuti in contesto “paracalcistico” allorquando, prima di una trasferta, i componenti la tifoseria laziale avevano divelto alla Stazione Termini di Roma alcune macchine obliteratrici, danneggiato la pavimentazione con il lancio di bombe carta e provocato la crepatura di alcuni muri, il tutto accompagnato con lancio di pietre, bottiglie di vetro e transenne e aggravato da lesioni subite dagli agenti di P.S. operanti. 
Così argomenta la Corte: “Residua a questo punto l’addebito di devastazione, in merito al quale ritiene la Corte di condividere le censure dei gravami, e ciò anche alla luce di una meditata lettura della giurisprudenza espressasi nella materia. Già da molto tempo (Cass. I, n. 4135 del 21.05.1973, Azzaretto) si è stabilito che nell’espressione “fatti di devastazione” contenuta nell’art. 419 c.p. la parola “fatti” indica le diverse possibili modalità dell’azione (danneggiamento, dispersione, incendio, esplosione, demolizione ecc.), mentre la parola “devastazione” è assunta dal legislatore nel suo significato tradizionale, e cioè di danneggiamento complessivo, indiscriminato, vasto e profondo di una notevole quantità  di cose mobili ed immobili come risultato dell’azione ed evento del reato: il caso in questione era quello di una rivolta carceraria sviluppatasi nell’arco di diversi giorni. Su questa fondamentale puntualizzazione la successiva giurisprudenza di legittimità non ha operato alcuna rettifica di rilievo, perché anche quelle decisioni che hanno sottolineato il requisito del pericolo contro l’ordine pubblico (ad es. Cass. I, n. 5166 del 04.04.1990, Chiti) hanno ribadito che il pericolo deve, per le modalità del fatto, essere concreto e non meramente ipotetico, essendo ravvisabile solo in situazioni di effettiva minaccia per la vita collettiva. Anche la pronuncia più recente (Cass. I, n. 26830 del 02.07.2001, Mazzotta), che pure ha affermato – peraltro in sede di sufficienza di indizi – che è indifferente che i fatti di devastazione abbiano interessato in tutto o in parte i beni oggetto di aggressione o che sia stato grave il danno in concreto prodotto, ha confermato che deve essere leso, oltre al patrimonio, anche l’ordine pubblico. In applicazione di tali principi ritiene la Corte che il reato non sussista in un caso, come quello al suo esame, in cui per un verso i danni descritti sono tutt’altro che espressivi di una devastazione vera e propria (basti considerare quanto esposto nella contestazione) e per altro verso la lesione dell’ordine pubblico è stata sostanzialmente contenuta in termini temporali” (Corte d’Appello di Roma, Sez. I penale, sent. N. 2610/04 del 30.03.2004).

Anche il Tribunale del Riesame di Firenze, con una ordinanza del 12.01.2005, così interpreta la norma: “Il delitto di devastazione ha una sua ontologia e tutela di bene giuridico diversa (dal danneggiamento, n.d.r.) e riguarda appunto, non è truismo, “devastazione” che significa che interi quartieri, zone vengono messe a soqquadro, sconvolte nel loro tessuto vitale, “calamitate” con produzione di ingenti danni materiali e morali, e con produzione di ferite essenziali e difficilmente rimediabili all’ordine pubblico”.

Tale decisione è stata poi ratificata dal G.u.p. del Tribunale di Pisa Dott. Alberto Panu il quale, con la sentenza n. 513/05 del 01.12.2005, ha correttamente osservato come “il delitto previsto dalla norma citata richiede fatti di devastazione e saccheggio, ovvero più episodi coinvolgenti interi quartieri ed ampie zone che vengano poste a soqquadro, sconvolte nel loro tessuto vitale, gravemente danneggiate e scombussolate, così da ledere irrimediabilmente l’ordine pubblico. Il termine devastare, infatti, è composto dal suffisso de+vastare che vuol dire rendere vuoto, deserto, a significare che i guasti e le rovine devono coinvolgere una grande quantità di cose e ampie zone pubbliche” (nella fattispecie l’episodio, pur grave, rimaneva circoscritto alle aree circostanti lo stadio di Pisa e i danni avevano coinvolto un certo numero di cose presenti sul luogo del sinistro, senza tuttavia sconvolgerlo). Il G.u.p. prosegue osservando come sia “l’entità della distruzione, indiscriminata, vasta, profonda, che distingue il delitto di cui all’art. 419 c.p. da quello di danneggiamento e giustifica la diversa collocazione sistematica delle due fattispecie”.

Ulteriormente, il G.u.p. del Tribunale di Roma Dott. Marco Patarnello, con la sentenza resa in data 12.01.2007 n. 83/07, inquadrando nella logica del sistema il dato normativo e parametrandolo per l’appunto ad altri gravissimi reati (art. 244, 270, 270 bis, 277, 284, 416 bis c.p.), ha ritenuto che “se questo è il quadro dell’approccio alla repressione penale del nostro ordinamento per quanto attiene ai delitti contro la personalità dello Stato o contro l’ordine pubblico è evidente che la pena fissata da otto a quindici anni per condotte come quelle in esame, riconducibili ad una ampia pluralità di reati di danneggiamenti o furti che abbiano esposto a rischio l’ordine pubblico può ritenersi costituzionalmente non censurabile solo nell’ipotesi che essa venga interpretata con un rigore particolare, suscettibile a ricondurla a ragionevolezza nella comparazione con le tipologie di delitti poc’anzi citate. In tal senso occorre ritenere che per la sussistenza del delitto di devastazione e saccheggio occorre che venga coinvolta con una rilevantissima mole di danneggiamenti o furti una zona o area cittadina di non trascurabile rilievo, quale può essere un quartiere o una piccola articolazione urbana oppure una vasta area territoriale non urbana. Non si vuole con questo certamente escludere che in linea generale uno stadio di calcio, ancor più se delle dimensioni rilevanti come quello della Capitale, possa essere un luogo suscettibile, in caso di devastazione massiccia e diffusa, di fondare la sussistenza del delitto di cui all’art. 419 c.p.; si vuole piuttosto affermare che in tal caso occorre che la mole dei danneggiamenti non sia riconducibile ad una area ben delimitata e tutto sommato circoscritta dello stadio, ma occorre piuttosto che esso venga in parte rilevante o comunque assai significativa attinto da una devastazione di una mole così rilevante di oggetti da non lasciare intatto quasi nulla di ciò che ricade nell’area,così rendendo l’esposizione a pericolo per l’ordine pubblico di particolare rilievo e concretezza per una pluralità rilevante di soggetti, anche estranei al fatto. Al di fuori di questa lettura la norma esaminata non potrebbe che essere oggetto di sottoposizione a giudizio incidentale di legittimità costituzionale per l’evidente portata sproporzionata e irragionevole della pena”.


Con la speranza che questo lavoro possa costituire spunto di riflessione su un reato sconosciuto ai più.

Avv. Lorenzo Contucci, Roma – settembre 2008 – 
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[1] “Chiunque, senza l’approvazione del Governo, fa arruolamenti o compie altri atti ostili contro uno Stato estero, in modo da esporre lo Stato italiano al pericolo di una guerra, è punito con la reclusione da sei e diciotto anni”.

[2] “Se segue la rottura delle relazioni diplomatiche, o se avvengono le rappresaglie o le ritorsioni, la pena è della reclusione da cinque a quindici anni”.

[3] Libro II, titolo V del Codice Penale.